La formazione continua è indispensabile per abilitare gli individui ad apprendere le competenze necessarie ad affrontare i cambiamenti economici, lavorativi, climatici e demografici che stanno trasformando le società: è questo il messaggio principale che emerge dal rapporto Skills Outlook 2021 dell’OCSE, che indaga sul significato e sull’importanza della formazione continua (lifelong learning), fornendo spunti su come i Paesi possono implementare strategie mirate a migliorare le competenze degli individui, aumentando la loro capacità di “imparare a imparare”.
Un dibattito che è antecedente la pandemia: già da un decennio, sottolinea il rapporto, la formazione continua viene considerata essenziale per navigare in un mondo del lavoro in rapido cambiamento, scosso dalla globalizzazione, dall’allungamento delle aspettative di vita, dai cambiamenti tecnologici, ambientali e demografici.
Tuttavia, la pandemia e la crisi che ha generato hanno ulteriormente accelerato questi trend, stravolgendo equilibri socio-economici e modificando le competenze richieste ai lavoratori, mentre le skill apprese nel contesto dell’istruzione formale o di un lavoro diventano obsolete più rapidamente.
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Perché la formazione continua è indispensabile
Di conseguenza, i lavoratori devono mantenere, aggiornare ed espandere le loro competenze per adattarsi e, se possibile, anticipare gli sviluppi tecnologici.
La digitalizzazione e l’automazione di alcuni processi e mansioni lavorative fa sì che alcune delle le competenze necessarie per svolgere compiti di routine e spesso utilizzate intensamente in alcune occupazioni sono ora meno rilevanti. Un fenomeno che, secondo l’Ocse, già prima della pandemia era destinato a provocare la scomparsa del 15% delle professioni attualmente esistenti, mentre per un 32% si sarebbe resa necessaria la riorganizzazione delle mansioni e l’apprendimento di nuove competenze per la forza lavoro.
Con la pandemia e il ricorso massivo al lavoro da remoto e alle tecnologie digitali per garantire la continuità dei processi, si evidenzia quindi un “doppio senso di urgenza” nell’intraprendere percorsi di formazione: da un lato ci sono le competenze che sono necessarie adesso, in un mondo del lavoro che è profondamente diverso rispetto a quello che era soltanto due anni fa, dall’altro quelle necessarie nel lungo periodo, in vista dei cambiamenti che avverranno nei prossimi 15-20 anni.
In una tale ottica, sottolinea il rapporto, occorre cambiare il concetto di formazione, passando da un processo a “compartimenti”, articolato in diverse fasi, a un processo che dura lungo tutta la vita dell’individuo.
Un percorso che inizia fin dall’infanzia, con il supporto di scuola e famiglia: un’attitudine positiva all’apprendimento è infatti associata a migliori prestazioni dei bambini nella lettura e nelle materie matematiche e scientifiche, oltre a favorire l’ambizione e la carriera dei giovani.
Tuttavia, già tra gli studenti più giovani le disparità socio-economiche pongono un freno allo sviluppo di queste capacità, soprattutto tra coloro che non proseguono gli studi dopo la scuola dell’obbligo. All’interno dei Paesi Ocse, sono state rilevate differenze nello sviluppo di nuove competenze correlate al numero di Neet (dall’inglese Neither in employment, education or training), vale a dire il numero di giovani che non hanno (né cercano) un impiego e non frequentano una scuola né un corso di formazione o di aggiornamento professionale.
Nei Paesi che sono stati in grado di ridurre la percentuale di Neet, in cambio, si è registrata una diminuzione delle disparità nei risultati e nella trasmissione intergenerazionale dei vantaggi educativi. Competenze che si sono rilevate cruciali in seguito all’interruzione della didattica causata dalla pandemia.
A breve termine, la pandemia potrebbe portare ad un aumento degli abbandoni scolastici. Nel medio e lungo termine, un minore coinvolgimento potrebbe far sì che l’attuale generazione di studenti non riesca a sviluppare atteggiamenti di apprendimento positivi, in un momento di profondi cambiamenti strutturali che richiederanno agli individui di aggiornare le loro competenze in modo continuativo nel corso della loro vita.
La situazione, tuttavia, era già problematica prima della pandemia: nei Paesi Ocse, infatti, già prima del Covid-19 un adulto su due non era coinvolto in percorsi di formazione. Il livello di istruzione è tra i principali fattori determinanti, con i lavoratori meno istruiti (in possesso di un titolo di scuola secondaria inferiore o di scuola primaria) con il doppio delle probabilità di venire esclusi dalla formazione in età adulta.
In questo contesto, la pandemia ha ulteriormente limitato le possibilità di partecipazione alla formazione professionale, anche tra i lavoratori interessati: le stime suggeriscono che in tutta nella regione Ocse, le opportunità di apprendimento formale (in scuole o centri di formazione) sono diminuite in media del 18% e le opportunità di apprendimento informale (attraverso il confronto tra colleghi o il ricorso a training aziendali) del 25%.
Anche la riduzione delle interazioni sociali ha avuto un impatto negativo sulla formazione, poiché anche attraverso queste interazioni si può apprendere (il cosiddetto “apprendimento involontario“).
Se da un lato il ricorso alle tecnologie digitali può comportare la riduzione alle barriere di accesso alla formazione continua, dall’altro può creare nuove barriere in termini di disparità di accesso a una connessione e ai dispositivi necessari per sviluppare nuove competenze in modalità online.
Inoltre, la capacità di acquisire nuove competenze attraverso la tecnologia è ancora più dipendente dalle abilità acquisite in precedenza rispetto a quanto avviene in un contesto di formazione in presenza: prima di tutto, gli individui devono possedere competenze digitali. In secondo luogo, essi devono avere la capacità di iniziare e sostenere l’apprendimento auto-regolato con pochi stimoli esterni (senza l’incoraggiamento, ad esempio, di un insegnante o un collega) e senza un precedente impegno sociale che determini il luogo e la durata del percorso di formazione.
Gli effetti della pandemia sul mercato del lavoro
La pandemia ha avuto pesanti ripercussioni anche sul mercato del lavoro: le evidenze raccolte dall’Ocse mostrano che a maggio 2020 gli annunci online di posizioni aperte presso le aziende hanno subito una flessione del 40% nella maggior parte dei Paesi, rispetto ai valori raccolti a inizio anno.
Nello stesso periodo, sono aumentate le offerte di lavoro di aziende in ricerca di lavoratori da remoto. Un fenomeno che ha avuto ripercussioni negative sui lavoratori meno istruiti, tra i più colpiti dalla pandemia: l’analisi delle nuove offerte di lavoro pubblicate online tra marzo 2020 e marzo 2021 ha evidenziato che gli annunci in cui viene richiesto un diploma di scuola secondaria inferiore o un livello di istruzione antecedente sono diminuiti di più rispetto a quelli in cui sono richiesti livelli di istruzione superiori.
Una situazione in parte dovuta al ricorso massivo allo smart working, che ha rappresentato per molte aziende l’unica possibilità di mantenere la continuità operativa e che le ha spinte a ricercare profili più qualificati, in possesso delle competenze necessarie per lavorare con le tecnologie digitali.
A lungo termine, l’effetto della pandemia sui posti di lavoro interagirà probabilmente con i cambiamenti strutturali esistenti, come la digitalizzazione e l’invecchiamento della popolazione – la quota della popolazione con 50 anni o più più dovrebbe crescere dal 37% nel 2020 al 45% nei paesi dell’Ocse entro il 2050, portando ad un aumento dell’età pensionabile e schemi pensionistici potenzialmente meno generosi – rimodellando la domanda di competenze digitali e figure professionali.
Allo stesso modo, in tutta l’Ocse, gli investimenti pianificati in tecnologie verdi e nelle energie rinnovabili aumenteranno probabilmente la domanda di specialisti in queste aree, creando potenzialmente dei deficit di competenze che i sistemi di formazione continua saranno chiamati a colmare.
A rendere ancora più difficoltoso lo sviluppo di questi sistemi si aggiunge il ricorso maggiore da parte dei datori di lavoro a contratti di breve durata. Ciò comporta una maggiore difficoltà (e un minore interesse) da parte dei datori di lavoro nel fornire percorsi di formazione continua ai dipendenti, oltre ad aumentare il numero di competenze che il dipendente deve imparare per restare competitivo sul mercato.
Il ruolo delle competenze trasversali per rimanere competitivi sul mercato del lavoro
Sfide che, da un lato, aprono nuove opportunità lavorative, ma che dall’altro hanno modificato il set di skill indispensabili ai lavoratori, come le capacità cognitive necessarie per svolgere mansioni non ripetitive (che verranno sempre maggiormente automatizzate) e competenze interpersonali e trasversali.
I dati delle offerte di lavoro online rivelano infatti che la comunicazione, il lavoro di squadra e le capacità organizzative sono tra le competenze trasversali più frequentemente richieste dai datori di lavoro in un’ampia varietà di occupazioni. A queste si aggiungono le competenze cognitive, come quelle analitiche, di risoluzione dei problemi, digitali, di leadership e di presentazione, che sono altamente trasversali tra le occupazioni e i contesti di lavoro.
Mentre la pandemia ha aumentato l’importanza di costruire set di competenze che rafforzino la resilienza degli individui al cambiamento, il rapporto mostra che l’influenza di queste competenze sulla competitività del lavoratore varia a seconda di come si combinano con altre competenze e con le mansioni/professioni svolte.
Al di là di queste variabili, emerge che una visione della vita basata su tre momenti definiti (formazione scolastica, lavoro e pensionamento) non ha più senso, alla luce di questo contesto in così rapida evoluzione.
“Se le competenze sono definite come la capacità di eseguire un complesso e ben organizzato di pensiero (nel caso delle abilità cognitive) o di comportamento (nel caso delle abilità comportamentali) per raggiungere obiettivi specifici, allora obiettivi che cambiano e contesti che cambiano richiedono agli individui di acquisire nuove competenze o di adattare quelle che hanno sviluppato in passato”, sottolinea il rapporto.
Formazione continua, quali sono le azioni da intraprendere
Ed ecco quindi che si rendono necessarie politiche volte a promuovere la formazione continua, in grado di rispondere alle esigenze del singolo e di guidarlo nelle transizioni tra i diversi contesti di apprendimento, trasformando le competenze apprese in vantaggi per l’intera società.
Il primo passo da compiere riguarda proprio il concetto alla base di questi sistemi: non si tratta solo di passare a questa nuova accezione di formazione (che interessa tutta la vita dell’individuo), ma anche di legare questa formazione alle differenze della singola persona, del contesto in cui vive e degli obiettivi che si prefigge di raggiungere.
La formazione continua, infatti, è caratterizzata da eterogeneità: può avvenire in contesti diversi (formale, non formale, involontaria), riguardare individui più o meno giovani, con diverse esperienze, attitudini e obiettivi. Si deve pertanto capire l’importanza di ciascuna fase della formazione dell’individuo, comprendere come ogni fase venga influenzata da ciò che è accaduto in quella precedente e quali fattori possono promuovere il passaggio da uno step all’altro.
Questa interdipendenza avviene perché il processo di apprendimento è caratterizzato da complementarietà e non sostituzione: non c’è un limite di conoscenze che la mente umana può immagazzinare. Allo stesso tempo, gli individui che hanno avuto già esperienza di apprendimento in passato trovano una maggiore facilità nello sviluppo di nuove conoscenze: ecco perché è importante “imparare a imparare” e che la scuola si focalizzi, a partire dai bambini, su quelle competenze necessarie all’apprendimento (quelle che il rapporto definisce lifelong skill, ovvero le competenze di cui un individuo ha bisogno nell’arco di tutta la sua vita).
Questo implica non solo che le politiche rivolte alla formazione continua mettano lo studente al centro del percorso, ma che si muovano in un’ottica di responsabilizzazione dell’individuo, condividendo le informazioni necessarie a guidarlo nel raggiungimento dei suoi obiettivi: dalle informazioni relative a una professione, le competenze necessarie per accedervi, aspettative di retribuzione, carriera e rapporto lavoro-vita privata.
È quindi essenziale diversificare i contenuti e le modalità di apprendimento, per tenere conto della natura intrinsecamente eterogenea della formazione stessa e degli individui a cui è rivolta. Una diversificazione che, tuttavia, deve essere gestita in modo tale da non portare a una forte separazione nei percorsi di apprendimento, che introdurrebbe ulteriori rischi per la coesione sociale e l’inclusione.
Proprio per la natura eterogenea della formazione continua, le politiche ad essa rivolte richiedono la cooperazione tra il pubblico, il settore privato e i gruppi della società civile, nonché l’elaborazione di politiche coerenti in materia di istruzione, mercato del lavoro, sviluppo economico, sociale e previdenziale.
A questo proposito, il rapporto sottolinea l’imprortanza di intervenire nel guidare il passaggio tra la fine della scuola dell’obbligo e l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, al fine di fornire ai giovani le competenze necessarie per affrontare tale transizione e ridurre il numero di Neet.
Oltre ad essere orientate all’inclusione, queste politiche devono essere orientate all’accessibilità: i costi immediati del fornire e del partecipare alla formazione continua dovrebbero essere distribuiti tra gli individui, i datori di lavoro e la comunità più ampia, riconoscendo i benefici distribuiti a lungo termine. Allo stesso modo, i costi a medio e lungo termine dell’inazione dovrebbero essere considerati insieme ai costi immediati dell’organizzazione dell’offerta.
Questo potrebbe eliminare barriere alla partecipazione, in particolare dei gruppi emarginati e di quelli svantaggiati da fattori socio-economici. L’adattabilità e l’accettabilità dovrebbero essere, quindi, di primaria importanza, con studenti ed educatori impegnati a definire gli obiettivi e i metodi di apprendimento.
Adottare approcci olistici quando si co-progettano e coordinano i programmi e le strategie non solo aiuterà ad affrontare i bisogni e le richieste di formazione in modo completo, ma promuoverà anche la volontà di partecipare e l’impegno attivo tra i partecipanti.
Anche sfruttando le opportunità messe a disposizione dalle tecnologie digitali – ma riconoscendo che in alcuni casi non possono sostituire la formazione in presenza – le politiche rivolte alla formazione essere orientate a fornire agli individui le lifelong skills, come le capacità di alfabetizzazione e calcolo, ma anche un’attitudine positiva verso l’apprendimento, che sarà indispensabile nel corso della loro vita (per questo vi si fa riferimento con il termine inglese lifelong attitude).
L’attuale frammentazione dei momenti di formazione, inoltre, può essere sfruttata per sperimentare nuovi percorsi di apprendimento, attraverso l’utilizzo di programmi e modalità innovative. Percorsi che richiederanno un’attenta analisi e revisione, attraverso lo sviluppo di sistemi informativi in grado di valutarne i risultati e individuare gli esperimenti di successo. Si dovrà, inoltre, distinguere tra quelli che possono essere replicati, escludendo gli esperimenti che sono riusciti perché legati a situazioni troppo specifiche, come la presenza di un determinato leader o insegnante.
Valutazioni che devono avvenire periodicamente, anche vista la necessità di aggiornare i percorsi di formazione per restare al passo con i futuri cambiamenti sociali, economici e lavorativi.
Si dovrà intervenire, inoltre, sulle procedure di riconoscimento, convalida e accredito della formazione, che in molti Paesi dell’Ocse sono ancora troppo macchinose. Questi processi devono essere semplificati, sottolinea il rapporto, anche assicurando che siano correttamente trasmessi ai datori di lavoro e adeguatamente implementati.
Il ruolo dei datori di lavoro nella formazione continua è, infatti, imprescindibile. Per questo le politiche dovranno fornire strumenti di sostegno a queste figure attraverso, ad esempio, formule di finanziamento che incentivino adeguatamente i datori di lavoro a investire nell’apprendimento. Un sostegno dal quale non devono e non possono essere esclusi lavoratori autonomi e piccole e medie imprese.
Uno sforzo condiviso dunque, che richiede la costruzione di diverse sinergie tra tutti gli attori della società – governi, scuole, il settore dell’istruzione superiore, le istituzioni di istruzione e formazione professionale, i datori di lavoro, le organizzazioni della società civile – ma anche tra i diversi settori dell’economia, che può facilitare l’accesso alla formazione lungo tutta la vita del lavoratore.
Una sfida non semplice, come non semplici sono i cambiamenti fin qui analizzati e che interesseranno le società nei prossimi anni. La pandemia ha senza dubbio accelerato tali cambiamenti, ponendo ulteriori difficoltà ma, al tempo tesso, creando nuove opportunità di risoluzione.
Una di queste, conclude il rapporto, è rappresentata dai piani nazionali di ripresa elaborati da molti Paesi (come il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza italiano), che offrono “un’opportunità unica” per ricucire non solo le ferite provocate dalla pandemia, ma anche quelle ad essa antecedenti.
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