Intelligenza artificiale, globalizzazione e sviluppo economico: il Nobel Stiglitz spiega come affrontare le sfide della rivoluzione digitale

Anton Korinek e Joseph Stiglitz (premio Nobel dell’Economia nel 2001) analizzano gli squilibri generati dalle tecnologie dell’informazione, come l’intelligenza artificiale, sugli equilibri sociali nei Paesi e tra i Paesi. Per mitigare gli effetti negativi della rivoluzione digitale occorrono politiche mirate, sia a livello nazionale che internazionale: ridiscutere le politiche internazionali che frenano la partecipazione dei Paesi in via di sviluppo al processo decisionale sulle normative che regolano gli scambi, adottare politiche comuni sulla concorrenza, la gestione della proprietà intellettuale e dei dati, e non escludere una corretta tassazione delle rendite dei “vincitori del processo innovativo”

Pubblicato il 15 Feb 2021

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Il progresso dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie di automazione minaccia di invertire i guadagni che i Paesi in via di sviluppo e i mercati emergenti hanno sperimentato dall’integrazione nell’economia mondiale nell’ultimo mezzo secolo, aggravando la povertà e l’ineguaglianza: partono da questa premessa gli economisti Anton Korinek (Professore associato, Dipartimento di Economia e Darden School of Business, Università della Virginia) e Joseph E. Stiglitz (Premio Nobel per l’Economia nel 2001) nella loro ultima pubblicazione intitolata “Intelligenza artificiale, globalizzazione e strategie per lo sviluppo economico”.

Secondo i due economisti, per gran parte degli ultimi 50 anni, c’è stata la presunzione che i progressi nella tecnologia avrebbero offerto benefici a tutti: una presunzione non sostenuta né dall’evidenza e né da teorie economiche. Korinek e Stiglitz sostengono, invece, che il progresso tecnologico può creare sia vincitori che perdenti.

Ora, finché i vincitori e i perdenti del progresso tecnologico si trovano all’interno dello stesso Paese, c’è almeno la possibilità che le misure di politica interna possano compensare i perdenti. Quando invece il progresso tecnologico determina squilibri tra Paesi, deteriorando le condizioni economiche di alcuni a vantaggio di altri, un valido meccanismo di compensazione non esiste. Per esempio lo sviluppo di nuove tecnologie che consentono di risparmiare sul costo delle risorse naturali e della manodopera per la produzione di un bene riducono il vantaggio competitivo di quei Paesi la cui economia si regge proprio sulla disponibilità di quelle risorse, come nel caso di molti Paesi in via di sviluppo.

A queste trasformazioni alcuni Paesi sanno reagire meglio di altri: in alcuni casi, come per la Cina, si è verificata una trasformazione economica tale che il vantaggio competitivo è stato addirittura migliorato; ma altri Paesi rischiano di perdere gli sforzi fatti nell’ultimo secolo per avvicinarsi agli standard di vita dei Paesi sviluppati.

Per sostituire il modello di crescita basato sulle esportazioni, i Paesi in via di sviluppo potrebbero indirizzare il progresso tecnologico e l’adozione della tecnologia in nuove direzioni, in parte sfruttando le opportunità che le moderne intelligenze artificiali e altre tecnologie digitali offrono nell’agricoltura e nei servizi.

Occorre però – sottolineano Korinek e Stiglitz – affrontare questi rischi e mitigare gli effetti negativi. Soltanto i governi possono, sia internamente che a livello globale, determinare politiche che riequilibrino i rapporti sul mercato e proteggano la parte della società che si trova a maggior rischio di subire gli effetti negativi di questa nuova rivoluzione.

Una rivoluzione diversa da quelle precedenti

Le sfide sollevate dall’innovazione dei processi produttivi, in particolar modo dall’introduzione dell’intelligenza artificiale e dell’automazione, sono particolarmente rilevanti proprio perché i loro effetti sono difficili da predire nel lungo termine e perché sarebbero diversi da quelli prodotti da altre rivoluzioni che hanno interessato i sistemi produttivi in passato.

Le prime rivoluzioni industriali, ad esempio, hanno portato a una società più egualitaria: l’innovazione associata a quella transizione era complessivamente non qualificata, cioè aumentava la produttività relativa del lavoro non qualificato. Inoltre, la produzione industriale forniva una forte forza verso l’istruzione di massa e coinvolgeva tipicamente grandi stabilimenti che potevano essere sindacalizzati con relativa facilità, e i sindacati sostenevano la compressione dei salari.

L’intelligenza artificiale, al contrario, spostando l’attenzione verso competenze più avanzate rischierebbe di rendere meno importante l’istruzione generale e potrebbe quindi orientare negativamente le politiche di istruzione pubblica, aumentando ulteriormente il divario tra i cittadini.

Problematiche che diventano ancora più rilevanti nel contesto attuale, con la pandemia che spinge verso la riduzione dell’interazione fisica tra gli esseri umani. A questo si aggiungono le dinamiche nazionali per quanto riguarda la popolazione inserita nella forza lavoro: nei Paesi dove la popolazione in età lavorativa sta crescendo rapidamente, come in molti paesi africani, dovranno essere creati molti nuovi posti di lavoro per mantenere un certo livello di occupazione.

Viceversa, nei paesi in cui la popolazione in età lavorativa è in declino, come la Cina e il Giappone, l’impatto dell’automazione del lavoro sulla forza lavoro è mitigato poiché i lavoratori che vengono sostituiti dal progresso tecnologico possono semplicemente andare in pensione. Inoltre, l’invecchiamento della popolazione crea grandi esigenze nel settore dei servizi, in particolare nella sanità.

Gli impatti dell’intelligenza artificiale sul Pil: il puzzle della produttività

“Se stiamo davvero vivendo in un’era di significativa rivoluzione tecnologica, perché gli aumenti dell’innovazione di cui sentiamo parlare non compaiono nei nostri dati del Pil?”, con questo quesito gli economisti aprono un capitolo dedicato alla difficoltà di valutare l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla produttività dei Paesi.

I motivi, secondo loro, sono principalmente due: parte della spiegazione del puzzle della produttività è che ci sono lunghi ritardi, come nel caso della computerizzazione. Il secondo fattore risiederebbe nelle metriche utilizzate al momento per valutare l’impatto dell’intelligenza artificiale sul mercato. “Molte tecnologie recenti possono aver portato ad aumenti del benessere sociale che non sono catturati dal Pil”, sostengono i due economisti.

Proprio di questo si era discusso in una recente conferenza organizzata dall’OCSE “AI in Work Innovation, Productivity and Skills” dove si era a lungo argomentato sulla necessità di giungere a nuove metriche che possano davvero valutare l’impatto di queste tecnologie sull’economia.

Le tecnologie dell’informazione rischiano di aumentare il divario tra Paesi

Nell’articolo, i due economisti spiegano che le tecnologie dell’informazione (come l’intelligenza artificiale) hanno il potenziale di aumentare il divario tra Paesi, creando un sistema dove soltanto alcuni godrebbero dei benefici e soltanto altri ne pagherebbero il prezzo.

Nello specifico, Korinek e Stiglitz analizzano due principali preoccupazioni sull’impatto dell’intelligenza artificiale e dell’automazione sull’economia: le conseguenze del risparmio sull’utilizzo (e il prezzo) delle risorse naturali e l’impatto sul risparmio della manodopera.

Queste tecnologie, infatti, arrecano un vantaggio in termini di risparmio di risorse naturali per la produzione. Tuttavia, questo vantaggio andrebbe a scapito di quei Paesi la cui economia è basata su queste risorse, anche e soprattutto attraverso l’export con Paesi che non ne hanno a disposizione o dove la produzione di un bene a partire da quella risorsa naturale ha un costo maggiore.

Di conseguenza, in questo sistema i beneficiari sarebbero quei Paesi che importano la risorsa (perché scendendo il costo di produzione possono utilizzare le proprie risorse per produrre o possono importare a un costo inferiore), mentre gli altri Paesi perderebbero il loro vantaggio comparato e sarebbero i soli a pagare il prezzo dello sviluppo tecnologico.

Il secondo fattore da prendere in analisi è il risparmio sulla manodopera, in particolare su quella non specializzata: le macchine, grazie al progresso tecnologico, riescono ad oggi a svolgere un numero sempre maggiore di funzioni che prima venivano svolte da lavoratori non specializzati. Di conseguenza, sono stati proprio questi a pagare il prezzo più alto del progresso tecnologico, poiché hanno visto i loro salari scendere, la loro valenza all’interno del processo produttivo diminuire e in alcuni casi hanno perso il lavoro.

Nel caso di un Paese caratterizzato da una manodopera non specializzata, che riesce a vivere sopra la soglia di povertà grazie ai prodotti manifatturieri che vengono esportati in cambio di di cibo, l’utilizzo di queste tecnologie per la produzione potrebbe avere, nel breve periodo, l’effetto di portare questi lavoratori sotto la soglia di povertà.

Allo stesso modo, anche in un Paese economicamente più avanzato l’innovazione dei processi produttivi aumenterebbe le ineguaglianze tra i lavoratori non specializzati e quelli altamente qualificati, con i primi che pagherebbero il prezzo del progresso tecnologico, poiché la loro manodopera è tutto ciò di cui dispongono.

Tuttavia, sostengono gli autori, c’è anche la possibilità che nel lungo termine queste tecnologie possano arrecare benefici. Un esempio, sostengono, viene dall’assistenza intelligente, cioè quella serie di innovazioni che permettono all’uomo di svolgere compito che altrimenti non avrebbe potuto svolgere: due esempi di queste tipo di innovazioni, nel passato, sono il termometro e il microscopio.

Inoltre, allo stato attuale l’automazione non riguarda intere professioni ma alcune delle task che le compongono ci sono alcune qualità umane che le tecnologie non sono ancora in grado di sostituire. Un esempio viene dal trasporto delle merci: i mezzi a conduzione autonoma hanno il potenziale di sostituire l’uomo alla guida. Tuttavia, sottolineano gli autori, l’uomo in questo tipo di lavoro non si limita a guidare ma svolge spesso compiti aggiuntivi (come fare gli ordini, caricare e scaricare il veicolo, controllarlo), che non sono stati ancora automatizzati.

In uno scenario simile, l’automazione potrebbe portare dei benefici al mercato del lavoro in quanto svincolerebbe il lavoratore dalle task più ripetitive e meno qualificate, lasciandogli il tempo di concentrarsi e sviluppare le competenze necessarie per le mansioni più qualificate. Allo stesso modo, sottolineano gli autori, non si può ancora determinare l’impatto futuro dell’automazione di un numero sempre maggiore di compiti in sempre più settori dell’economia.

Su questo argomento si concentrava lo studio pubblicato nel 2017 degli economisti Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, che ha analizzato l’impatto dei robot sul mercato del lavoro nelle cosiddette “commuting zones” degli Stati Uniti (aree geografiche utilizzate nell’analisi della popolazione e dell’economia di un determinato territorio non metropolitano), confrontando l’impatto della robotica (in termini di occupazione e salario) in queste zone rispetto ad altre meno esposte all’automazione.

Anche in questo saggio, si concludeva che le possibili ripercussioni sarebbero dipese dalla velocità di diffusione e dal livello di penetrazione della robotica nei vari settori economici. Tuttavia, l’analisi svolta dai due economisti suggeriva che gli aumenti di impiego in altre occupazioni e industrie compensativi la perdita di lavoro dovuta ai robot sarebbero alquanto limitati.

L’impatto dell’innovazione sul libero mercato

Un’altra sfida da affrontare è quella dei monopoli che le tecnologie dell’informazione, come l’IA, tendono a originare, creando un piccolo insieme di cosiddette “imprese superstar” che si trovano in pochi Paesi potenti, ma che servono l’intera economia mondiale. Di conseguenza, l’economia potrebbe spostarsi verso un equilibrio più distorto dal potere del mercato, dove gli attori con più potere potrebbero utilizzarlo a loro vantaggio. La distorsione che ne seguirebbe, sottolineano gli economisti, potrebbe ridurre o annullare i benefici dell’innovazione.

Le ragioni dietro questo fenomeno sono molteplici: in primo luogo, l’IA è un bene digitale, e i beni digitali sono diversi dagli altri beni in quanto non sono rivali (possono essere usati a un costo marginale vicino allo zero), il che implica che una singola impresa può servire un mercato molto ampio. Inoltre, la creazione di programmi di IA comporta tipicamente alti costi irrecuperabili e/o costi fissi e in un mercato privato, le imprese hanno bisogno di guadagnare rendite di monopolio per recuperare questi costi.

In aggiunta, anche piccoli costi irrecuperabili possono far sì che i mercati non siano contendibili, vale a dire che ci potrebbero essere rendite e profitti sostenuti. Inoltre, le applicazioni e le piattaforme di intelligenza artificiale comportano tipicamente esternalità di rete significative. Alcune di queste sorgono perché le aziende accumulano grandi quantità di dati che permettono loro di addestrare i loro algoritmi meglio di quelli della concorrenza. Tutti questi effetti creano grandi barriere all’ingresso e una tendenza a quello che viene talvolta chiamato effetto “superstar” o monopolio.

Questi effetti, secondo gli autori, non saranno visibili soltanto a livello aziendale, ma avranno ripercussioni sull’intero stato, con probabilità di essere esacerbati dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale. L’innovazione, quindi, conferisce sempre un potere di monopolio, almeno temporaneo, agli innovatori. Ma il potere di monopolio è intrinsecamente incoerente con la concorrenza perfetta, e porta a quantità di produzione inefficientemente basse.

Tuttavia, sottolineano gli economisti, il mercato non si preoccupa della ridistribuzione del reddito. Si rende necessario, quindi, un intervento dei governi volto ad assicurare che non ci siano parti della popolazione lasciate indietro dal progresso innovativo. Intervento che, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, deve anche guidare l’innovazione, scegliendo quali tecnologie possono essere a vantaggio del Paese.

Cosa possono fare i governi per mitigare gli impatti negativi dell’innovazione

Tra le politiche critiche per combattere la crescente disuguaglianza ci sono quelle di tassazione e redistribuzione, con un ruolo particolarmente importante per la tassazione progressiva. Una rimodulazione che i governi possono fare contando proprio sull’aiuto delle tecnologie, utilizzando ad esempio le piattaforme digitali per accedere alle transazioni effettuate e riscuotere le tasse su di esse.

Oltre a questo, con il risparmio sulla forza lavoro (e quindi una diminuzione delle entrate fiscali provenienti da esso) si rende necessario trovare altri fattori e rendite da tassare. Da un punto di vista di efficienza, spiegano gli autori, la tassazione delle rendite è particolarmente desiderabile: imporre tasse su fattori fissi, come la terra, agisce come una tassa forfettaria. E tassare le rendite può effettivamente scoraggiare il rent-seeking, migliorando l’efficienza.

Una soluzione da preferire sarebbe quindi, Korinek e Stiglitz, andare a tassare le rendite di quei “vincitori del processo innovativo” (ad esempio dei giganti tech o delle aziende “superstar” prima menzionate), che eviterebbe grandi stravolgimenti nell’economia. Importante sarà per i governi, sottolineano gli economisti, valutare l’incidenza del sistema di tassazione, per evitare (come a volte accade) che le tasse siano alla fine sostenute da altri fattori e agenti rispetto a quelli su cui sono imposte, minando gli obiettivi redistributivi desiderati.

Altri fattori da prendere in considerazione per la tutela degli individui più a rischio di subire l’impatto del processo innovativo sarebbero, secondo gli economisti, un’assicurazione sociale e un reddito di base universale. “Se le possibilità di redistribuzione sono limitate – concludono gli autori – specialmente nei Paesi in via di sviluppo in cui la capacità di tassare è bassa, dobbiamo cambiare la nostra enfasi dalla redistribuzione alla pre-distribuzione, cioè dobbiamo concentrarci su come influenzare la distribuzione del reddito di mercato piuttosto che prendere il reddito di mercato come dato e imporre tasse e trasferimenti”.

Come farlo? Attraverso politiche che influenzano la distribuzione del reddito di mercato stesso, quali:

  • politiche di spesa e di sviluppo delle infrastrutture, particolarmente importanti per i Paesi in via di sviluppo in quanto indirizzano le risorse verso coloro che ne hanno veramente bisogno (ad esempio verso i lavoratori non qualificati che hanno subito gli impatti negativi dell’intelligenza artificiale). In questo campo, particolarmente importanti sono le politiche volte a dividere il digital gap tra i cittadini di un Paese, in quanto permettono anche agli strati meno abbienti della società di accedere ai servizi digitali e di migliorare le proprie condizioni di vita
  • politiche di educazione. Anche se, secondo gli autori, il ruolo dell’educazione nel determinare gli impatti della digitalizzazione è stato in alcuni casi esagerato (perchè anche alcune professioni altamente qualificate hanno risentito gli effetti di queste tecnologie), “un certo livello di istruzione è fondamentale per i cittadini dei Paesi in via di sviluppo e di quelli ad alto reddito per partecipare alla moderna economia digitale ed evitare un divario digitale basato sull’istruzione per cui alcuni semplicemente non sanno come accedere e beneficiare delle risorse e delle opportunità offerte da Internet e dalle tecnologie digitali correlate”
  • nuove strategie per i Paesi in via di sviluppo, che devono allargare la loro attenzione oltre il settore manifatturiero e oltre il settore secondario ad altri settori dell’economia, compresi l’agricoltura e i servizi e che devono prestare particolare attenzione all logica degli interventi pubblici da programmare.

Determinare politiche globali per ridurre le ineguaglianze tra i Paesi

La direzione che prenderà l’innovazione nell’intelligenza artificiale sarà determinata dai Paesi ad alto reddito. Quello che avverrà in questi influenza e continuerà a influenzare, tuttavia, ciò che accade e che succederà nel resto del mondo. A fronte di questo, le normative sono spesso decise da pochi Paesi sviluppati, oppure da attori influenti che operano all’interno di questi singoli Paesi.

L’intelligenza artificiale potrebbe, secondo gli economisti, creare un’opportunità per affrontare e correggere queste disuguaglianze, in quanto le sue regole sono ancora in fase di definizione. Inoltre, le istituzioni internazionali, alcune delle quali sono sempre meno dominate dai paesi ad alto reddito, possono svolgere un ruolo nell’assicurare che le regole siano stabilite in un modo che rifletta più adeguatamente gli interessi e le preoccupazioni di tutti i Paesi, compresi quelli in via di sviluppo.

Secondo gli economisti, queste politiche dovrebbero mirare a:

  • creare un adeguato regime fiscale che riduca i privilegi fiscali delle multinazionali e che crei un sistema di giusta tassazione per queste
  • stabilire regole di concorrenza globali
  • riequilibrare il regime internazionale di proprietà intellettuale per assicurare un’equa distribuzione dei guadagni del progresso tecnologico
  • stabilire regole in materia di dati, che tengano conto dell’interesse dei cittadini e dell’impatto di queste tecnologie sui Paesi in via di sviluppo.

Soltanto così si potrà, secondo Korinek e Stiglitz, mitigare i possibili effetti negativi di questa rivoluzione innovativa, mentre gli effetti (positivi o meno) che si avranno nel futuro rimangono ancora tutti da delineare.

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Michelle Crisantemi

Giornalista bilingue laureata presso la Kingston University di Londra. Da sempre appassionata di politica internazionale, ho vissuto, lavorato e studiato in Spagna, Regno Unito e Belgio, dove ho avuto diverse esperienze nella gestione di redazioni multimediali e nella correzione di contenuti per il Web. Nel 2018 ho lavorato come addetta stampa presso il Parlamento europeo, occupandomi di diritti umani e affari esteri. Rientrata in Italia nel 2019, ora scrivo prevalentemente di tecnologia e innovazione.

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