“Coordinare le attività dei poli universitari di ricerca, degli enti pubblici di ricerca e anche degli enti e istituti privati dove si perseguono ricerca e innovazione in termini di qualità e eccellenza”. È questo il ruolo, secondo il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, della nuova Agenzia Nazionale per la Ricerca, che sarà inserita nella nuova legge di bilancio. Per annunciare la nascita di questa realtà il premier ha scelto la presentazione della Relazione 2019 del Consiglio nazionale delle ricerche, alla quale ha partecipato anche il ministro dell’Istruzione, università e ricerca scientifica Lorenzo Fioramonti che è stata l’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte nel nostro paese.
Secondo il rapporto la posizione italiana, nel complesso, resta ancora lontana dalla media Ue. Migliorano, anche se in misura ancora insufficiente, i dati della spesa per Ricerca e Sviluppo in rapporto al Pil, degli stanziamenti pubblici, dei ricercatori in rapporto alla forza lavoro, del divario di genere, del saldo commerciale tecnologico e dei brevetti e si conferma il quadro positivo della produzione scientifica, mentre non ci sono segni di miglioramento per quanto riguarda l’età media dei ricercatori italiani.
Indice degli argomenti
Conte: “Migliorare sistema di reclutamento e incrementare finanziamento pubblico”
Una ricerca “seria” che deve arruolare ricercatori di prim’ordine, ha spiegato Conte nel suo discorso, pagarli adeguatamente e dotarli degli strumenti necessari per svolgere il loro lavoro. “Il sistema di reclutamento va allineato ai migliori standard internazionali – ha spiegato – e un ottimo reclutamento è garanzia necessaria e insostituibile di un’ottima ricerca. In questo ambito, occorre proseguire con maggiore determinazione anche perché i nostri giovani devono rimanere in Italia e devono poterlo fare con piena consapevolezza e in piena libertà”.
“Dobbiamo incrementare il finanziamento pubblico – ha sottolineato – e, nello stesso tempo, promuovere nuove forme di finanziamento e di partenariato pubblico-privato da incoraggiare e favorire. Dovremo ancora promuovere un sistema più integrato, più sinergico tra gli enti di ricerca pubblici e privati e il mondo dell’industria. Dobbiamo alimentare la circolarità dei saperi e delle opportunità in modo di favorire una competizione virtuosa e il reciproco arricchimento che può rivelarsi strumento prezioso per accelerare il raggiungimento dei più ambiziosi obiettivi”.
Ricerca e sviluppo, sale la spesa ma l’Italia resta fanalino di coda
In Italia, la spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S) in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil) è in lieve ripresa, passando dall’1,0% del 2000 a circa l’1,4% del 2016, grazie anche all’interruzione del trend di diminuzione degli stanziamenti pubblici. Restiamo tuttavia posizionati in fondo alla classifica dei paesi europei, dove il rapporto tra investimenti in R&S e Pil è quasi del 2%. Dopo la flessione del biennio 2014-15, sono in ripresa anche gli stanziamenti del Miur agli Enti pubblici di ricerca (Epr), passati da 1.572 milioni nel 2016 a 1.670 milioni nel 2018: il Cnr, in particolare, ha ottenuto nel biennio un incremento da 555 milioni a 602 milioni.
Aumentano i ricercatori, sopratutto nelle imprese private
La quota dei ricercatori in rapporto alla forza lavoro, pur rimanendo ben al di sotto di quella degli altri paesi europei e distanziandosi ancora di più dalla media Ue, è costantemente cresciuta nell’ultimo decennio. Dal 2005 al 2016 i ricercatori sono aumentati di circa 60 mila unità. La crescita più rilevante si è registrata nelle imprese private, 72 mila addetti, che si avvicinano, per numero di ricercatori, all’università che mantiene quota 78 mila. Crescono, negli ultimi 10 anni, gli Enti pubblici di ricerca che toccano quota 29 mila, oltre il 15% del totale. Molto rilevante la quota di assegnisti: sono più del 20% dei ricercatori nelle università, e addirittura il 25% negli Enti.
La relazione evidenzia anche un progressivo aumento delle ricercatrici e, secondo le proiezioni, entro il 2025 il divario di rappresentanza di genere potrebbe pressoché scomparire nelle istituzioni pubbliche e ridursi drasticamente nelle università, mentre nelle imprese sembra rimanere sostanzialmente immutato. Tuttavia, queste proiezioni non considerano la progressione di carriera, che tuttora penalizza le donne. Confrontando l’età dei ricercatori, la Relazione evidenzia come nell’università italiana gli over 50 superano la metà dei docenti, mentre nel Regno Unito e in Francia sono, rispettivamente, il 40% e il 37%. L’età media dei docenti italiani è di quasi 49 anni e quella dei ricercatori negli Epr è di 46. I ricercatori nelle imprese private hanno un’età inferiore, pari a 43 anni.
Inguscio: “Investire nel reclutamento per evitare nuovo precariato”
“La sfida della scienza passa anche per politiche orientate ad un futuro, che è già presente – sottolinea il presidente del Cnr, Massimo Inguscio – in cui si realizzino le necessarie sinergie tra ricerca, tecnica, ambiente, patrimonio culturale: rafforzando così un patto che è iscritto nella nostra stessa Costituzione e che cerca di produrre, senza discriminazioni, benefici per le donne e per gli uomini”.
“Le donne e gli uomini che lavorano nella ricerca – prosegue – devono anche essere protagonisti di una politica di reclutamento adeguata. Siamo riusciti a non disperdere le competenze sviluppatesi negli anni, stabilizzando in modo molto significativo il lavoro precario, a far ripartire un nuovo reclutamento con concorsi nazionali competitivi organizzati per aree strategiche, a realizzare promozioni meritocratiche. Centrale sarà d’ora in poi una politica di investimento che consenta un reclutamento regolare e programmato ed eviti il prodursi di nuovo precariato”.
Cresce la produzione scientifica ma da Europa più costi che ricavi
Per quanto riguarda la produzione scientifica, la comunità dei ricercatori italiani produce una quantità di pubblicazioni significativa e in crescita: sia come quota mondiale (quasi il 5% nel 2018), sia per qualità, attestata dalle citazioni medie ricevute per pubblicazione, che nel biennio 2017-18 sfiorano l’1,4. Una produzione analoga a quella della Francia, la quale però conta su un numero di ricercatori più elevato rispetto al nostro paese.
L’Italia continua a essere un partecipante attivo dei Programmi Quadro Europei, compreso Horizon 2020, conseguendo nel primo triennio l’8,7% dei finanziamenti, quota distante da quella dei finanziamenti ottenuti dai maggiori paesi europei. Il saldo tra quanto il Paese contribuisce e quanto riesce ad ottenere è negativo: l’Italia, infatti, concorre con il 12,5% al bilancio complessivo e intercetta lo 8,7% delle erogazioni. Il risultato è dovuto in parte al minor numero di ricercatori e in parte al tasso di successo dei progetti coordinati dal nostro Paese, pari al 7,5% a fronte di una media di Horizon 2020 del 13,0%.
“Ci sono margini di miglioramento che rendono necessario perseguire politiche strategiche – spiegano Daniele Archibugi e Fabrizio Tuzi, ricercatori Cnr – per aumentare il tasso di ritorno dell’investimento europeo, occorre infatti pensare a sostegni amministrativi, ad incentivi per chi presenta domande, favorendo la collaborazione pubblico-privato e l’innovazione, e coinvolgendo maggiormente idee e proposte dei giovani ricercatori”.
Ancora pochi appalti pubblici, ma migliorano prestazioni tecnologiche
Per quanto riguarda l’entità del public procurement, cioè gli appalti pubblici, i dati evidenziano effetti marginali: gli avvisi relativi al settore Ricerca e Sviluppo sono 6 ogni mille gare bandite, mentre nel Regno Unito sono 10 su mille e in Germania 8. Il procurement di R&S nel 2018 ha raggiunto i 176 milioni di euro, appena lo 0,15% del totale dei beni e servizi acquistati dalla pubblica amministrazione. Basterebbe un moderato aumento di questi numeri per incrementare notevolmente l’investimento totale in R&S: se, ad esempio, il valore arrivasse all’1% degli appalti pubblici nazionali, con un incremento di circa 6 volte rispetto alla spesa attuale, si genererebbe un significativo strumento per promuovere l’innovazione industriale.
Gli indicatori relativi alle prestazioni tecnologiche continuano a mostrare minimi segnali di miglioramento. Per quanto riguarda il saldo commerciale nell’alta tecnologia, nell’ultimo decennio il deficit registrato dall’Italia è diventato meno rilevante, attestandosi nel 2018 su -4 miliardi di dollari. I settori high-tech dove si riscontrano le maggiori quote esportate si confermano l’Automazione industriale, con il 7% delle esportazioni mondiali, e la Farmaceutica, con circa il 4,5%. Anche i brevetti depositati ogni 100.000 abitanti hanno mostrato un incoraggiante miglioramento: 6,7% nel 2016; 7,2% nel 2018. I brevetti italiani continuano, tuttavia, ad essere solo il 2,52% sul totale mondiale.