Sulla strada che porta verso l’Industria Digitale non ci sono solo le tecnologie, ma anche le competenze. E oggi in Italia, seconda manifattura in Europa dopo quella tedesca, è paradossalmente più facile trovare gli strumenti Hi-tech che le professionalità giuste.
Una lacuna che nei prossimi anni rischia anche di aggravarsi, mettendo a rischio la possibilità di continuare a far bene nella manifattura e nell’economia. Per colmarla servono interventi precisi e urgenti. Uno di questi è spingere l’acceleratore sulla formazione duale, che unisce e alterna teoria in aula e pratica in azienda, seguendo un modello già consolidato in Germania.
E poi, non solo Open Innovation, ma anche ‘Open Education‘, creando un neologismo 4.0 che significa realizzare reti di collaborazione aperta tra aziende, scuole, istituzioni: le tecnologie evolvono velocemente, portando con sé, con la stessa rapidità, nuove specializzazioni e competenze, e solo una collaborazione e un contato diretti tra le varie parti in causa può dare risposte efficaci.
Di tutto questo (e di altro ancora) si è parlato in occasione dell’evento ‘Fabbrica DigItalia: new skills, new jobs’, che si è svolto nei giorni scorsi a Milano al grattacielo Pirelli: un momento in cui si sono confrontati manager, istituzioni e formatori, e in cui è stato dato il via a DigItalia, il progetto biennale finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca tedesco (Bmbf), per sviluppare modelli di formazione duale e continua nei principali settori dell’Industria 4.0.
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Il divario da colmare tra tecnologie e formazione
L’incontro al Pirellone è stato anche l’occasione per presentare la ricerca ‘Necessità e bisogni formativi dell’industria nell’era 4.0’, realizzata dalla Camera di Commercio Italo-Germanica (Ahk Italien) in collaborazione con Ipsos e con la partecipazione di Aldai-Federmanager. Uno studio che ha coinvolto 120 aziende italiane di medie e grandi dimensioni (il 66% con oltre 100 dipendenti), e che ha fatto il punto sulla rivoluzione digitale, tra conoscenze, tecnologie, formazione e progetti all’interno delle imprese.
Dall’indagine emerge innanzitutto che è consistente (53%) la quota di aziende che sta già implementando Industria 4.0 o inizierà a implementarla nel 2019: tra gli ambiti di applicazione primeggiano Data analytics (nel 60% dei casi), Internet of Things (40%), e i sistemi Crm per la gestione e profilazione dei clienti (37%). Seguono poi applicazioni di robotica e Robotic process automation (Rpa, per il 26% del totale), Multicanalità verso il mercato e i clienti (24%), Cyber-security (22%). Chiudono la graduatoria di tecnologie e ambiti di applicazione le soluzioni di Intelligenza artificiale e sistemi Cloud (entrambe al 15%), e quelle di Blockchain (limitate al 12%).
Ma emerge anche un divario netto tra i nuovi modelli produttivi e il mercato del lavoro: il 46% delle aziende lamenta una mancanza di competenze idonee a gestire la complessità tecnologica, mentre il 39% segnala una resistenza al cambiamento che ostacola e limita la diffusione di Industria 4.0.
“A volte c’è una forte resistenza al cambiamento anche da parte del Top management, che vuole arrivare alla pensione senza realizzare trasformazioni e innovazioni in azienda, ritenute anche destabilizzanti e pericolose per la propria leadership. Per questo, bastano pochi manager in ruoli chiave e contrari alle novità per bloccare tutta l’azienda”, denuncia Gerhard Dambach, vice presidente della Camera di Commercio Italo-Germanica e Ceo di Bosch Italia.
Le cosiddette soft skills, vale a dire abilità non tecniche e specialistiche, come la creatività e l’attitudine al Problem solving, risultano essere non solo le competenze più difficili da trovare sul mercato del lavoro (per il 42% del totale), ma emergono trasversalmente come necessarie per un’implementazione efficace di Industria 4.0, seguite dalle competenze tecniche come informatica avanzata, automazione industriale e meccatronica.
Secondo stime di Ernst & Young, in 5 anni il 60% delle competenze attuali sarà già obsoleto, mentre nel 2025 i profili tecnici diventeranno il 60% della popolazione lavorativa. In Italia, nel giro di qualche anno, si calcola che serviranno poco meno di 200 mila figure professionali in ambito tecnico, e si prevede che se ne coprirà solo una su tre, per scarsità o mancanza di competenze adeguate.
Il mestiere del Business translator
Monica Poggio, amministratore delegato di Bayer Italia e presidente dell’ITS Lombardia Meccatronica, sottolinea: “In Bayer Italia avevamo bisogno di un Data scientist, in grado di leggere le enormi quantità di dati che utilizziamo per sviluppare i nostri prodotti, e quindi abbiamo assunto per la prima volta un laureato in matematica, mentre in genere cerchiamo chimici, biologi e altri laureati in materie farmaceutiche”.
Ma poi, per far ‘dialogare’ questo nuovo esperto di Big data con gli altri settori aziendali, “abbiamo anche dovuto creare una nuova figura professionale, quella del Business translator, il ‘traduttore’ del Business, un ruolo che fa da tramite tra attività diverse che hanno anche visioni e linguaggi diversi tra loro”.
Open Education, mettere le competenze in rete
E l’amministratore delegato di Bayer Italia rimarca: “per cambiare l’organizzazione aziendale pre-esistente in una fabbrica Smart, servono competenze tecniche ma anche Soft skills, serve Problem solving”.
Per questo, osserva la manager, bisogna realizzare il cambiamento “non solo attraverso l’Open Innovation, ma anche con una ‘Open Education‘, vale a dire bisogna sviluppare reti di collaborazione diretta tra aziende, scuole, istituzioni, per fare in modo che le esigenze aziendali trovino in tempi rapidi una risposta adeguata dal mondo della formazione”.
Come Camera di Commercio Italo-Germanica, “promuoviamo in Italia la formazione duale, nella quale teoria e pratica, Soft e Hard skills, aula e azienda, coesistono all’interno di un percorso formativo strutturato e calato nella realtà del mercato del lavoro”, sottolinea Jörg Buck, consigliere delegato di Ahk Italien: “è questa la nostra risposta alla complessità del fenomeno 4.0 che, come confermano anche i dati di mercato, ha dato origine a un paradigma nel quale conoscenze tecniche e solide capacità manageriali non possono prescindere le une dalle altre”.
Portare l’Innovation manager in famiglia
A differenza di Paesi nostri concorrenti, come Germania e Francia, in Italia nelle aziende di famiglia “abbiamo ancora una forte componente di familismo manageriale, mentre l’innovazione rende sempre più necessario, anche nelle imprese familiari, introdurre dirigenti e manager esterni”, spiega Stefano Firpo, direttore generale per la Politica industriale, la competitività e le Pmi del Ministero dello Sviluppo economico.
I Voucher e le misure di incentivo e sostegno per portare un Innovation manager nelle aziende, previsti nella Manovra 2019, “vanno proprio in questa direzione di rinnovamento”, fa notare Firpo.
Un’iniziativa, quella a favore dei manager per l’innovazione, “ottima” anche secondo Giovanni Brugnoli, vice presidente per il Capitale umano di Confindustria: “servono competenze specifiche per portare il cambiamento e la Digital transformation nelle nostre imprese e nel Made in Italy, e l’Innovation manager può incrementare questa propensione e anche l’orientamento all’Export”.