Ispirarsi, copiare e ricreare la ‘flessibilità’ presente in natura e in biologia. Per applicarla al mondo della tecnologia, della meccanica e dei robot. Un mondo fatto di grande precisione ma in genere ben poca adattabilità, dove un piccolo guasto o inconveniente può bloccare tutto il sistema.
L’idea, e l’iniziativa, è di alcuni ricercatori del Centre for Genomic Regulation (Crg), del Centro Embl di Barcellona, Bristol Robotics Laboratory e Università di Bristol, che stanno sviluppando il progetto “Swarm-Organ”, letteralmente “Sciame organico”.
Si chiama così perché lo stanno applicando a un insieme fatto di centinaia di robot, piccoli come una moneta, e l’obiettivo è proprio quello di ottenere da questa massa di piccoli robot un comportamento simile a quello di uno “sciame” di insetti, che si muove unito, compatto, appunto “organico”, e non come tante individualità scollegate le une dalle altre.
I ricercatori europei vogliono quindi copiare e adattare alle macchine e agli automi la flessibilità presente in natura e nelle specie animali e vegetali. In modo che, in caso di imprevisto o malfunzionamento che può riguardare un singolo robot, o un componente di un macchinario, tutti gli altri siano pronti a rimediare al guasto sostituendo subito ciò che non funziona, per continuare nel loro percorso operativo, come uno “sciame organico”.
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Soluzioni Hi-Tech ispirate alla biologia
“Abbiamo introdotto e applicato alla robotica i principi biologici dell’auto-organizzazione”, rileva James Sharpe, capo del gruppo di ricerca Embl di Barcellona, come evidenziato in questi giorni anche dalla rivista Science Robotics.
Il ricercatore spiega: “centinaia di piccoli robot possono lavorare in Team per creare forme ispirate alla biologia, adattandosi a cambiamenti, intoppi e imprevisti senza seguire un piano generale di base, pre-impostato, ma basandosi esclusivamente sulla comunicazione tra loro e sul movimento e l’aggiornamento in tempo reale. Proprio come in natura fa uno sciame di insetti che si muove. In questo modo, dimostriamo che è possibile applicare i concetti di auto-organizzazione della natura alla tecnologia e ai robot. Ciò è affascinante perché la tecnologia è molto fragile rispetto alla robustezza che vediamo in biologia. Per esempio, se un componente, anche piccolo, del motore di un’automobile si rompe, di solito ne risulta un’auto non più funzionale, bloccata, inutilizzabile. Al contrario, quando un elemento di un sistema biologico si rompe, ad esempio se una cellula muore improvvisamente, non compromette l’intero sistema, e di solito viene sostituita da un’altra cellula in tempi rapidi. Se, dalla natura, riuscissimo a ottenere la stessa auto-organizzazione e auto-riparazione nella tecnologia, potremmo renderla molto più utile e flessibile di quanto sia ora”.
Robot come cellule
Ecco come funziona il meccanismo. Ispirati dalla biologia, gli automi si affidano alla messaggistica a infrarossi per comunicare con i vicini entro un raggio di 10 centimetri. Questo rende i robot simili a cellule biologiche, in quanto anche loro possono comunicare direttamente solo con altre cellule fisicamente vicine a loro.
“I robot memorizzano i morfogeni: molecole virtuali che trasportano le informazioni di modellazione”, sottolinea il responsabile del gruppo di ricerca Embl. Che osserva: “i colori segnalano la concentrazione di morfogeno dei singoli robot: il verde indica valori di morfogeno molto elevati, il blu e il viola indicano valori inferiori, e nessun colore indica l’assenza del morfogeno nel robot. La concentrazione di morfogeno di ciascun robot viene trasmessa ai robot vicini entro un raggio di 10 centimetri. Lo sciame forma varie forme spostando i robot da aree con bassa concentrazione di morfogeno in aree con alta concentrazione di morfogeno”.
Il modello generale di macchie di colori che emerge spinge il trasferimento dei robot dove si verificano eventuali incidenti o imprevisti, tendendo a mantenere la compattezza e l’omogeneità dello “sciame”.
Così le macchine imparano ad adattarsi
“Le uniche informazioni che il Team di ricercatori ha installato nei robot”, rimarca Sharpe, “erano regole di base su come interagire con i vicini: hanno programmato i robot nello sciame per farli agire in modo simile alle cellule di un tessuto: se una “cellula” si rompe o si blocca, ce n’è subito un’altra che prende il suo posto e rende possibile continuare il funzionamento dell’intero sistema”.
“È bello vedere lo sciame di robot cambiare e adattarsi in forme diverse, sembra abbastanza organico”, fa notare Sabine Hauert, ricercatrice dell’Università di Bristol. Che rileva: “ciò che è affascinante è che non esiste un piano generale predefinito, pre-installato, queste forme emergono come risultato di semplici interazioni tra i robot”.
La prima parte del progetto è stata fatta con simulazioni al computer, e ci sono voluti circa tre anni prima che il vero e proprio sciame robotizzato prendesse la sua prima forma. Prendendo ispirazione dalla formazione delle forme in biologia, il Team è stato in grado di dimostrare che le forme dei loro robot potevano adattarsi ai danni e all’autoriparazione. La formazione su larga scala della forma dello sciame è molto più affidabile di ciascuno dei piccoli robot, il tutto è maggiore della somma delle parti.
Dalla natura, l’innovazione
L’obiettivo finale è quello di creare grandi sciami di robot per applicazioni reali. Per esempio, centinaia o migliaia di piccoli automi che si sviluppano in forme diverse per esplorare un ambiente disastrato dopo un terremoto o un incendio, o che si scolpiscono in una struttura dinamica in 3D, come un ponte o passaggio temporaneo che potrebbe automaticamente regolare le sue dimensioni e la sua forma per adattarsi a qualsiasi edificio o terreno.
“Poiché ci siamo ispirati alla formazione biologica di uno sciame di insetti, che è nota per essere auto-organizzata e flessibile, questo sciame applicato alla tecnologia potrebbe continuare a funzionare anche se alcuni robot sono stati danneggiati”, sottolinea Daniel Carrillo-Zapata, un altro dei ricercatori europei coinvolti nel progetto. Tuttavia, nonostante i risultati finora incoraggianti, “c’è ancora molta strada da fare, prima di vedere questi sciami fuori dal laboratorio”.